sabato 18 maggio 2019

Al chiaro di luna, vicino al mare, negli isolati angoli delle campagne, si vede, immersi in amare riflessioni, ogni cosa rivestirsi di forme gialle, indefinite, fantastiche. L’ombra degli alberi, ora in fretta, ora lentamente, corre, viene, ritorna, con forme diverse, appiattendosi, incollandosi alla terra. Quando ero trasportato dalle ali della giovinezza, questo mi faceva sognare, mi sembrava strano; ora, ci sono abituato. Il vento geme attraverso le foglie le sue languide note e il gufo canta il grave lamento, che fa drizzare i capelli a chi lo sente. Allora i cani, resi furiosi, spezzano le catene, scappano dalle fattorie lontane, corrono per la campagna, qua e là, in preda alla follia. Di colpo s’arrestano, guardano da ogni lato con ferina inquietudine, l’occhio infuocato e, come gli elefanti, prima di morire, lanciano nel deserto un ultimo sguardo al cielo, disperatamente alzando la proboscide, abbandonando le orecchie inerti, così i cani abbandonano le orecchie inerti, alzano il capo, gonfiano il collo terribile e prendono ad abbaiare, tutt’intorno, o come l’elefante che grida per la fame, o come un gatto ferito al ventre su un tetto, o come una donna che sta per partorire, o come un moribondo di peste all’ospedale, o come una ragazza che canta un’aria sublime, contro le stelle del nord, contro le stelle del sud, contro le stelle dell’ovest; contro la luna; contro le montagne, di lontano simili a rocce gigantesche, che giacciono nell’oscurità; contro l’aria fredda che aspirano a pieni polmoni, che fa l’interno delle narici rosso, bruciante; contro il silenzio della notte; contro le civette, il cui volo obliquo sfiora il loro muso, stringendo un topo o una rana nel becco, nutrimento vivo, dolce per i piccoli; contro le lepri, che dispaiono in un batter d’occhio; contro il ladro, che fugge al galoppo del suo cavallo dopo aver commesso un crimine; contro i serpenti, che smuovono le brughiere, e che fanno loro tremare la pelle, stridere i denti; contro i propri latrati, che mettono paura a loro stessi; contro i rospi, che sbranano con un colpo secco di mascella (perché si sono allontanati dalla palude?); contro gli alberi, le cui foglie, dolcemente cullate, sono tanti misteri ch’essi non comprendono, che vogliono scoprire con occhi fissi, intelligenti; contro i ragni, sospesi alle lunghe zampe, che s’arrampicano sugli alberi per salvarsi; contro i corvi, che non hanno trovato cibo durante la giornata e che ritornato al nido l’ala stanca; contro le rupi a riva; contro i fuochi, che sembrano pennoni di navi invisibili; contro il sordo rumorio delle onde; contro i grandi pesci, che, nuotando, mostrano la schiena nera, poi s’inabissano; e contro l’uomo che li fa schiavi. Dopo ciò tornano a correre per la campagna, saltando le zampe insanguinate i fossati, i sentieri, i campi, le erbe e le petraie scoscese. Li si direbbe presi dalla rabbia, mentre cercano un immenso stagno per estinguere la sete. Gli urlii prolungati spaventano la natura. Guai al viaggiatore attardato! Gli amici dei cimiteri si lanceranno su di lui, lo dilanieranno, lo mangeranno con quelle bocche da dove gronda sangue; poiché essi non hanno denti guasti. Gli animali selvatici, non osando avvicinarsi per prendere parte al pasto di carne, fuggono a perdita d’occhio, tremanti. Dopo qualche ora, i cani, stanchi di correre qua e là, quasi morti, la lingua fuori della bocca, si precipitano gli uni sugli altri, senza sapere quel che fanno, e si dilaniano in mille brandelli, con rapidità formidabile. Non si comportano così per crudeltà. Un giorno, con occhi vitrei, mia madre mi disse: «Quando sarai nel tuo letto e sentirai i latrati dei cani per la campagna, nasconditi sotto le coperte, non prenderti gioco di quel che fanno: hanno una sete inestinguibile d’infinito, come te, come me, come il resto degli umani dalla figura pallida e allungata. Tuttavia, ti permetto di metterti alla finestra per contemplare questo spettacolo, che è tanto sublime.» Da allora, rispetto il desiderio della morta. Io, come i cani, sento il bisogno dell’infinto… Non posso, non posso soddisfare questo bisogno! Sono figlio dell’uomo e della donna, da quel che m’hanno detto. Ciò mi sorprende… credevo d’essere diverso! Per il resto, cosa importa da dove vengo? Se fosse dipeso dalla mia volontà, avrei voluto essere piuttosto figlio della femmina di squalo, la cui fame è amica delle tempeste, e di una tigre dalla crudeltà riconosciuta: non sarei così malvagio


Les Chants de Maldoror - Isidore Lucien Ducasse, Conte di Lautréamont ( rintracciato su https://linutile.wordpress.com/2012/12/25/mal-daurora/ )

https://www.youtube.com/watch?v=mdlXnNND5Uk&feature=share







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