mercoledì 23 agosto 2023

 

"Mi ritrovavo dunque in una città nuova e in pieno fermento. Olimpiadi 1976: la piccola ginnasta Nadia Comăneci aveva ottenuto il massimo. Il punteggio di 10 era talmente insolito nella storia delle Olimpiadi che il tabellone elettronico non riusciva neanche a segnarlo per intero – lo 0 era una novità. L’intera città era in festa. Un’allegria fino ad allora a me sconosciuta correva per le strade come un cobra accecato dal sole. La sera mi sono ritrovato in un piccolo locale jazz in centro dove suonavano Nina Simone e Dizzy Gillespie. Il proprietario era originario della Guadalupa, un cuoco-poeta che mi ha fatto reimmergere nei sapori della cucina caraibica dandomi l’illusione di non aver mai lasciato il paese. Me ne stavo in un angolino di quella saletta caldissima e fumosa a osservare Nina Simone che cantava. Lei stringeva un bicchiere di whisky nella mano destra e una sigaretta sporca di rossetto tra le lunga dita eleganti. Cantava guardando fuori dalla finestra, come intenta a osservare un mondo al quale noi non potevamo avere accesso. Non so perché, ma in quel preciso istante è nata la mia vocazione di scrittore. Volevo scrivere nello stesso modo in cui Nina Simone cantava. Certo, con i miei modi più rudi, ma, mi auguravo, con la sua stessa grazia. È un ideale che ancora perseguo. C’è una cosa che avevo in comune con lei, una cosa che mi porto dietro da Haiti, ed è una sorta di speranza folle incatenata al corpo. Per impedire a un haitiano di sognare bisogna ammazzarlo. Ho sgobbato in una fabbrica per otto anni, ho patito la fame, le notti fredde di solitudine, ma non ho mai smesso di sognare di diventare, un giorno, uno scrittore. Non lontano da dove abitavo, ho trovato una vecchia macchina da scrivere a buon mercato, una Remington 22 che ancora oggi tengo sulla scrivania, anche se non la uso più. Ho appoggiato la macchina da scrivere sul tavolino in mezzo alla stanza, tra i fiori e la frutta, e ho ripensato a mia madre, che riempiva la casa di fiori anche quando non avevamo un soldo. Questa idea della bellezza mi è rimasta. Avevo capito che Hemingway non sarebbe mai stato un grande scrittore se oltre a essere un macho della letteratura americana, in lui non si fosse nascosta anche una di sartina che sferruzzava trattenendo le lacrime. Miller mi piaceva perché sorrideva alla vita con una gioia che lo rendeva irresistibile. Trovavo lo stile di Bukowski più delicato di quanto non sembrasse. Apprezzo gli artisti che mascherano il proprio gioco. Morale: non spetta allo scrittore piangere, ma al lettore. Mai mostrare le proprie lacrime. Evitavo i ghetti, quei quartieri nei quali si raggruppavano le persone di una stessa condizione sociale, perché a vivere tra simili non si impara nulla. Ben inteso, lungi da me qualsiasi forma di disprezzo sociale, perché non mi riferisco solo alle situazioni economiche disperate, ma anche ai ghetti intellettuali. Tanto più che i ricchi si ghettizzano molto più dei poveri. Io volevo essere libero di circolare in quel nuovo spazio vergine dei miei passi e dei miei appetiti. La giornata trascorreva senza luce: prendevo la metro per andare al lavoro prima che sorgesse il sole e tornavo la sera dopo il tramonto. Mangiavo da solo, e a volte la solitudine mi era più insopportabile della fame. Stanco di quei ritmi, ho deciso di smettere di sprecare le mie energie in una fabbrica e lanciarmi nell’avventura più folle della mia esistenza: scrivere un romanzo che raccontasse la mia vita di allora a Montréal. Quella che vivevo nel momento in cui scrivevo. Quella che, per il fatto di dipendere da me, mi strappava dalla fatalità della dittatura. Quella stessa fatalità che fa sì che gli scrittori che hanno vissuto in condizioni simili passino la vita a ricreare quello stesso universo, dando l’impressione di essere finiti per sempre nella tela dell’orribile Ragno con gli occhiali e il cappello neri. Volevo raccontare la nuova vita che si viveva a Square Saint-Louis, nel quartiere latino di Montréal. Gli anni trascorsi sotto la dittatura, il bruciante esilio di mio padre, il dolore di mia madre, mi hanno fatto capire che il mostro è freddo e ha bisogno delle nostre passioni per riscaldarsi. Ciò che più lo fa urlare di rabbia è che tentiamo di uscire dal suo universo per crearci il nostro. In altre parole: sia che lo detestiamo sia che lo adoriamo, quello che al dittatore serve per ricaricarsi, come una pila elettrica, è essere al centro della nostra vita. Quando mi sono seduto davanti alla macchina da scrivere, la prima cosa che ho promesso a me stesso è stata quella di impedirgli di entrare nel mio universo, qualunque fosse la sua forma. Quella piccola stanza sporca ma luminosa nella quale trascorrevo le mie giornate, così come la pagina bianca sulla quale scrivevo, sarebbero diventate il mio paese. Un paese reale e al contempo sognato, un luogo che nessuna polizia al mondo avrebbe mai potuto violare. La scrittura sarebbe stata per me una festa intima. Certo non ho mai escluso di farmi prendere dall’ansia: dopotutto la miseria non garantisce il talento."

Dany Laferrière

http://premiogregorvonrezzori.org/dany-laferriere/

https://youtu.be/r03V9OEJlgg

https://youtu.be/ZA-RUfE1MOg

https://youtu.be/7m3Ly2A9mbo










Photo: Lady From Shanghai (1947) Director: Orson Welles 



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