lunedì 14 giugno 2021

 Vostra Eccellenza, che mi sta in cagnesco


per que’ pochi scherzucci di dozzina,


e mi gabella per anti-tedesco


perché metto le birbe alla berlina,


o senta il caso avvenuto di fresco


a me che girellando una mattina


càpito in Sant’Ambrogio di Milano,


in quello vecchio, là, fuori di mano.


M’era compagno il figlio giovinetto


d’un di que’ capi un po’ pericolosi,


di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto


ove si tratta di Promossi Sposi…


Che fa il nesci, Eccellenza? o non l’ha letto?


Ah, intendo; il suo cervel, Dio lo riposi,


in tutt’altre faccende affaccendato,


a questa roba è morto e sotterrato.


Entro, e ti trovo un pieno di soldati,


di que’ soldati settentrionali,


come sarebber Boemi e Croati,


messi qui nella vigna a far da pali:


difatto se ne stavano impalati,


come sogliono in faccia a’ generali,


co’ baffi di capecchio e con que’ musi,


davanti a Dio, diritti come fusi.


Mi tenni indietro, ché, piovuto in mezzo


di quella maramaglia, io non lo nego


d’aver provato un senso di ribrezzo,


che lei non prova in grazia dell’impiego.


Sentiva un’afa, un alito di lezzo;


scusi, Eccellenza, mi parean di sego,


in quella bella casa del Signore,


fin le candele dell’altar maggiore.


Ma, in quella che s’appresta il sacerdote


a consacrar la mistica vivanda,


di sùbita dolcezza mi percuote


su, di verso l’altare, un suon di banda.


Dalle trombe di guerra uscian le note


come di voce che si raccomanda,


d’una gente che gema in duri stenti


e de’ perduti beni si rammenti.


Era un coro del Verdi; il coro a Dio


Là de’ Lombardi miseri, assetati;


quello: “O Signore, dal tetto natio”,


che tanti petti ha scossi e inebriati.


Qui cominciai a non esser più io


e come se que’ còsi doventati


fossero gente della nostra gente,


entrai nel branco involontariamente.


Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello,


poi nostro, e poi suonato come va;


e coll’arte di mezzo, e col cervello


dato all’arte, l’ubbie si buttan là.


Ma, cessato che fu, dentro, bel bello,


io ritornavo a star com' ella sa;


quand’eccoti, per farmi un altro tiro,


da quelle bocche che parean di ghiro,


un cantico tedesco, lento lento


per l’aer sacro a Dio mosse le penne;


era preghiera, e mi parea lamento,


d’un suono grave, flebile, solenne,


tal, che sempre nell’anima lo sento:


e mi stupisco che in quelle cotenne,


in que’ fantocci esotici di legno,


potesse l’armonia fino a quel segno.


Sentia, nell’inno, la dolcezza amara


de’ canti uditi da fanciullo; il core


che da voce domestica gl’impara,


ce li ripete i giorni del dolore:


un pensier mesto della madre cara,


un desiderio di pace e d’amore,


uno sgomento di lontano esilio,


che mi faceva andare in visibilio.


E, quando tacque, mi lasciò pensoso


di pensieri più forti e più soavi.


Costor, – dicea tra me, – re pauroso


degi’italici moti e degli slavi,


strappa a’ lor tetti, e qua, senza riposo


schiavi li spinge, per tenerci schiavi;


gli spinge di Croazia e di Boemme,


come mandrie a svernar nelle maremme.


A dura vita, a dura disciplina,


muti, derisi, solitari stanno,


strumenti ciechi d’occhiuta rapina,


che lor non tocca e che forse non sanno;


e quest’odio, che mai non avvicina


il popolo lombardo all’alemanno,


giova a chi regna dividendo, e teme


popoli avversi affratellati insieme.


Povera gente! lontana da’ suoi;


in un paese, qui, che le vuol male,


chi sa, che in fondo all’anima po’ poi,


non mandi a quel paese il principale!


Gioco che l’hanno in tasca come noi.


Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale,


colla su’ brava mazza di nocciòlo,


duro e piantato lì come un piolo.




Sant'Ambrogio 


Giuseppe Giusti





https://youtu.be/cSHjvcRLR0s





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