venerdì 8 ottobre 2021

 "Il mio nome completo era Alberto Verdugo y Sáez de Miera, ma non si può arrivare a 35 anni senza aver perso (se non tutto) almeno un pezzo di un nome così lungo. Quindi non mi importa affatto se mi chiamano: l’avvocato Verdugo, l’avvocato boia. Anzi, è quasi divertente vedere trasformato in soprannome un termine così vecchio e putrido: El Verdugo, il boia, il banditore degli ultimi sogni, il sicario, l’assassino legalizzato. E non mi importa troppo nemmeno del mio carattere pessimista, capace di rendere amara ogni illusione, se mai ne ho avute; e se si può chiamare illusione quel miscuglio di vaghe aspirazioni che, a mano a mano che passano gli anni, finiscono col diventare pretesti per continuare a vivere. Coerente lo sono stato solo nella volontà di andare sempre più avanti, sempre oltre. Boia dei miei sogni. Ma soprattutto boia dei progetti fatti da me e per me, boia della volontà dei miei genitori che mi sognavano amministratore di tenute agricole, padrone del destino dei contadini, industriale che fa il suo bravo viaggio annuale in Europa sul transatlantico della Ward Line. Sono queste le cose contro le quali è scattata la mia ribellione. La mia scommessa con la vita. Come un’automobile che ha imboccato il Paseo de la Reforma, mi butto contro tutto ciò che avrebbero voluto che fossi, e vado avanti, sempre di corsa, anche se non esiste una meta, come non esiste possibilità di vittoria. Adesso non ci sono più padre e madre che hanno inventato questa mia camicia di forza, come non esistono più i legacci che me la tenevano stretta addosso. Ho trasformato la mia laurea in legge in modus vivendi per un avvocato di puttane: non ho potuto far niente di meglio/peggio con quel benedetto pezzo di carta la cui funzione originaria era l’essere appeso nel salotto di quel cimitero porfiriano dove la mia famiglia è vissuta ed è morta. Resta la burla dei tre anni passati in Italia a studiare. No, qualcosa di meglio. Resta una traduzione di Malatesta in spagnolo, come prova di quegli anni. Traduzione che, con firma e dedica, fece venire la bava alla bocca allo zio Ernesto quando gliel’appoggiai sulla scrivania, bava verdognola quando gli declamai con voce melliflua (la voce sì mi è rimasta: non c’è fuga senza testimone) quel brano che dice: “Il nemico non sarà chi è nato dall’altra parte della frontiera, né chi parla una lingua diversa dalla nostra, bensì colui che non ha la ragione, colui che vuole violare la libertà e l’indipendenza degli altri”. Insomma, adesso che la casa dei miei avi è solo un cumulo di macerie che chiunque può calpestare da quando una palla di cannone vagante l’ha squarciata durante la Rivoluzione nella Decena tragica, i dieci giorni di sangue in cui Huerta fece fuori il presidente Madero, adesso posso ritornare a casa con il cappello a tesa larga, simbolo dell’uomo della notte. Cappello noto nei cabaret, nelle osterie e nei bordelli di tutto il Distretto federale, cappello grigio-perla rubato dall’attaccapanni in casa del fratello di un ministro di don Porfirio, che lo usava alla domenica, quando voleva essere elegante ma informale. Posso togliermi il cappello, sventolarlo, salutare le macerie di casa mia e dire: “Così come mi vedete, è la prova del mio trionfo: non sono niente di ciò che volevate che fossi; non ho nulla di quello che pretendevate che possedessi, non mi è rimasto niente. Non ho lasciato niente”.




- Ombre nell'ombra -


Paco Ignacio Taibo II




https://youtu.be/ZHF8dEoBYdY






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