domenica 23 ottobre 2022

 "È un po’ come dire a un santo che per dimostrare il suo distacco dall’ambizione più sottile deve peccare coscientemente e, traversando così l’inferno, elevarsi per sempre. Un discorso difficile col rischio di perdersi.

Chi non lo fa, rischia di attendere a lungo, di trasmettere messaggi senza eco di ritorno per tanto tempo. E intanto rimane solo.

Ippolito era solo.

Aveva intuito anche lui la via innovatrice pratica: “progresso c’è ma fretta lo travolge” scrisse. Ma non ci aveva creduto per sé.

Odiava la folla e amava la gente. Detestava il chiasso, il tumulto ma era pronto a correrci in mezzo se portava una speranza reale.

A 17 anni assisté con un amico alla disfatta italiana nella prima guerra risorgimentale a Custoza. Per 11 ore vide i soldati piemontesi in fuga, esausti, a piedi, e i generali in carrozza. Fu una rivelazione allucinante per il giovane idealista. Era quella la via del libero riscatto?

Amava la quiete, specialmente di notte. Fuggiva le città e la vanità letteraria mondana appena poteva. Spuntava al Caffè Pedrocchi di Padova e nel salotto della Contessa Maffei a Milano, ma fuggiva presto. Se non fosse stato per la veemenza di certe passioni, era quasi un puritano. L’amore lo faceva soffrire, quasi alla follia. Sfogava il tormento scrivendo, come molti. Ma come pochi in lui era poesia. Amava Venezia, ma non i veneziani. Un mito della libera repubblica. Risiedeva a lungo a Milano, ma non l’amava. Di notte sì. Abitava in via Brera, al n. 5 e si abbandonava a lunghe camminate buie con un amico, perduti nella nebbia e in fonde discussioni.

Sottilmente narcisista, elegante, non voleva raffronti banali. Ma se doveva farlo, andava fino in fondo, con durezza. L’orgoglio proteggeva la sua grande delicatezza. Aveva improvvisi cambiamenti d’umore e, dominante, l’idea della morte giovane. Di colpo emergeva: “Rimpiangi i begli anni? ma non c’è forse l’infinito oltre le nubi del cielo? Ecco dove andare.”

Ricercava in sé le fibre della tristezza, aveva vissuto l’adolescenza in campagna con esperienze di gente contadina, di poche speranze, anche se piena d’energia. Si rinchiudeva per analizzarsi ed esaltarsi come uno che si sente una piccola parte del gran tutto e i casi propri un’immagine di tutti. Ma voleva dirlo da solo, a suo modo e si infilava nelle sue carte.

D’estate, sulla laguna veneta a Grado usciva qualche volta in mare di notte, coi pescatori, senza parlare. Come intorno al Duomo di Milano nottetempo, tornava alla comunione con l’universo. Tutto appariva essenziale, pulito, avvolto di solitudine.

Sentiva in sé Cervantes, Rousseau e Giusti. Amava Sterne e traduceva Heine. Leggeva Poe. Non apprezzava Foscolo e Byron.

Incontrò quasi certamente a Torino nel 1857 negli ambienti letterari che entrambi frequentavano Tolstoi.

Una serie di analogie nei personaggi e nelle idee li univa.

Quando uno scriveva le Confessioni, l’altro componeva I tre morti, l’umanità di fronte a questo passo estremo. Quando furono pubblicate le Confessioni, Tolstoi scriveva Guerra e Pace, in cui Natascia era l’immagine slava di Pisana, Platon quella di Martino.

Il creatore di Pisana aveva inventato molti personaggi veri, archetipi di caratteri diversi, usciti da racconti e novelle di campestre turbamento e di sospesa vivacità. Alcuni erano ingenui, altri lamentosi, qualcuno noioso, i più molto belli.

Non c’era ancora nello scrittore una identità personale completa, preferiva la descrizione di rapporti, di caratteri giovani e vecchi, a quelli drammatici e faticosi dell’uomo adulto. Era il limite dell’età. Morì prima dei trent’anni.

Si affidava ad una suprema provvidenza che misteriosamente reggeva il mondo, benché non fosse religioso e cattolico. Non aveva fiducia nelle risorse politiche del momento, né in quelle materiali di chi aveva e poteva dare, né in quelle rivendicatrici di chi non aveva. Pragmatico e antiretorico lo scriveva con accenti ironici, anche verso se stesso, larvati di melanconia. La sua sensibilità si spandeva in una straordinaria facilità di scrivere. Al di là cominciava la solitudine.

Sperava nel buon senso, inconscio, della nazione che si formava allora. Puntava su un’armonia possibile tra i contadini e i cultori del pensiero liberale, attraverso gli unici elementi pratici che facevano da ponte tra le due parti, i preti di campagna.

Lo diceva lui che aborriva l’alto clero. “È un difetto grave degli uomini di pretendere le uguali opinioni da un grado diverso di cultura.”

Coi contadini, con cui giocava a carte, a tressette, la sera viveva il senso antico del tempo e della fatica. Cercava una medicina alla sua irrequietezza. La vita solitaria, l’antica economia ritmata dal discorso muto con la natura che usciva da quelle figure filtravano in lui. Scriveva anche all’aperto, nellepasseggiate, portando con sé penna e calamaio. Frugale e indipendente, temeva il freddo. Non era robusto, si esauriva facilmente e accusava “dolorini” dalla parte del cuore. Amava la musica, suonava e qualche volta componeva ma non sapeva ballare, lui che era agilissimo. Era coraggioso, un coraggio non istintivo, d’orgoglio. Non voleva farsi una famiglia, solo e libero anche in ciò. «Alessandro farà per me» diceva. E così fu.

Raccontava scrivendo molto e in fretta, come molto e in fretta viveva. Gli altri lo seguivano nelle forme più ritmiche, esteriori, razionali. Sentivano che c’era qualcos’altro in lui ma non riuscivano a capire cosa.

Cantò eroi piccoli dall’anima grande. Gente in rovina, sull’orlo del dramma, contadini, nobili, derelitti di tante classi. Nella sua proiezione diventavano giganti. Poi sparivano, un limite ineluttabile, in cui era preciso. Mostrava l’impotenza della vita contro i soprusi, chiudendo i racconti con una catarsi che si compiva in chi leggeva. Il verismo si avvicinava."


Il prato sotto il mare 


Stanislao Nievo



https://youtu.be/yHtss2sSGkA



https://youtu.be/VmqXW87W5MM






Fotografia:


Hotel 

Tim Askerov


https://twitter.com/ZaklinaczLosiow/status/1583818497976545280?s=20&t=NGaf_O-O1QEE7DFXfwwQ-Q





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