"Morivano di continuo, come per un’ossessione. Non li capivo. Erano dappertutto: per
le strade e nelle case. Noi li portavamo via, con la sirena che urlava e incendiava
l’aria. Mi sembravano tutti uccisi. Correvamo nel ghiaccio e nel sole. Incidenti,
malattia, lamiere, andavamo incontro a questo senza sapere nulla. L’unica cosa che
sapevo era che sicuramente esisteva un colpevole, da qualche parte. C’è sempre un
colpevole. Magari eravamo lì che mangiavamo, o c’era su la solita cassetta con il film
porno, o stavamo dormendo, cullati da un ambiente che in quanto a squallore non ha
eguali, ed ecco una chiamata – la radio, il telefono –, ecco che dovevamo schizzare
verso qualcuno che stava male, con la famiglia che intralciava e si disperava e noi
non sapevamo come fare, non potevamo consolare nessuno. Irrompevamo in quelle
case estranee, mai viste, ci facevamo largo tra strati di disperazione, obbligati a una
confidenza che aveva qualcosa di brutale. A chi mi chiedeva conforto io riuscivo
soltanto a dire: «Presto arriveremo in ospedale.» Era la mia specialità. Dopo aver
caricato alla meno peggio il malcapitato sull’ambulanza – una volta una signora ci
rotolò in terra – se non c’erano cose particolari da fare io mi piazzavo accanto e
ripetevo: «Tra poco arriviamo. Tra poco arriviamo.» Mi sembrava una buona cosa, mi
sentivo utile. Nessuno la faceva bene come me, quella parte. Forse dicono così anche
gli angeli che scortano le anime nell’oltretomba e che non sanno nulla della logica
dell’universo, proprio come me. Non che io fossi un angelo, comunque. Dopo aver
lasciato il paziente all’ospedale tornavamo al Sottocomitato, magari finivamo di
trangugiare il cibo freddo e, quelli che apprezzavano la cosa, finivano di vedere il
film porno. A quel punto ci sentivamo stanchissimi. Era un’esistenza particolare.
Qualcosa non andava. Le persone non erano come mi ero immaginato. Io supponevo
che in una sede della Croce Rossa avrei trovato delle crocerossine, ragazze laboriose
e volte al bene, pronte a curare il prossimo. Alla peggio immaginavo di trovare dei
crocerossini. Tipi altruisti, sempre disponibili a prestarti un cerotto. Invece non era
così. Ero finito in un tugurio saturo di violenza, dove alla maggior parte della gente
piaceva andare sugli incidenti. La verità è che si eccitavano. Erano persone
risucchiate dal sangue e dal dolore altrui: ne avevano bisogno. Quando non
lavoravano passavano il tempo a picchiarsi, a guardare i film porno e a correre sugli
incidenti. Stazionavano lì, attorno a noi, lì, in un limbo dove si alternavano tensione,
azione e rilassatezza catatonica. Correre su un incidente mortale era fonte di
prestigio. Li vedevi tornare gongolanti, dissimulando la soddisfazione con finta
modestia, come se non fosse accaduto nulla di bello, e invece poi ti sparavano: «Tre
morti», e spiegavano che si sarebbe dovuta pulire l’ambulanza con la sistola, perché il
sangue e il resto erano schizzati dappertutto. Naturalmente poi fingevano di essere
abbattuti. Non era soltanto questo che non andava. C’erano anche altri particolari che
non tornavano. Ma ora non è questo il punto. Il punto adesso è: come ero finito
laggiù?
2.
Non avevo lavoro, ero confuso, faceva freddo, io amo il caldo. Improvvisamente fui
chiamato a fare il servizio civile alla Cri, che sarebbe la Croce Rossa Italiana, anche
se all’inizio pensai fosse il verso di qualche grillo esotico. Il Sottocomitato dove
dovevo prestare servizio si trovava in un paesino del Valdarno abbandonato da Dio, chiamato Torresola (il paesino, non Dio). Ricordo che arrivai un mattino di febbraio.
La piana fangosa era avvolta nella nebbia, nel cemento e nelle fabbriche. Mi ero
immaginato un simpatico paesello toscano, con antiche costruzioni, succulente
specialità gastronomiche e avvenenti fornaie, invece mi trovai tra casette recenti che
sembravano messe su dalla Lega per la promozione del suicidio. Di fornaie neanche
l’ombra. Capii subito che la gente era strana. Si muovevano nella nebbia come
maledetti inglesi, o come padani, non saprei. Mi guardavano di nascosto, erano rettili
extraterrestri venuti dall’oltretomba. Erano facce grevi, segnate dalla dura e
abbrutente vita del rettile extraterrestre, non c’era da fidarsi. Erano esseri che non
potevo capire, e che non mi avrebbero mai capito. Ero un estraneo e loro lo sapevano,
mi avevano riconosciuto. C’era una specie di sagra, o di festa, non so. La strada
principale del paese era piena di banchetti che vendevano croccante e porchetta.
Ragazze orrende ridevano nella nebbia. Adunche dita di fumo si alzavano dai tetti e
indicavano il cielo morto. Mi ingozzai mestamente di porchetta. Guardai la palazzina
della Croce Rossa, un avamposto sulla morte, con sotto le ambulanze in attesa come
mostri. Ancora non sapevo che mi avrebbero condotto in una dimensione sconosciuta,
navicelle per viaggiare nell’angoscia, ma anche attraverso l’angoscia e oltre la vita.
Un ragazzo passando accanto a me fece un rutto senza precedenti, doveva avere un
amplificatore in gola. Un vigile gesticolava verso le macchine, come volesse favorire
gli incidenti. Varcai il portone e salii verso il mio incerto destino. Pensavo di essere
andato lì tanto per fare conoscenza, come il primo giorno di scuola. Avremmo parlato
un po’, mi avrebbero rimandato a casa e festa finita. Errore. Per diversi giorni non mi
sarei mosso dal paese. Me lo comunicarono due miei colleghi. Uno alto e biondo,
chiaramente un pazzo, mi disse che lì si stava malissimo, non si mangiava, la notte
non si dormiva per via degli incidenti, il giorno non si dormiva perché era giorno, i
volontari ci maltrattavano e insomma tutto era uno schifo. L’altro confermò. Mi
sentivo un po’ a disagio fra tanto ottimismo. Per fortuna doveva arrivare il
Responsabile degli obiettori, a sistemare le cose. Arrivò. Disse che presto avrebbe
dato ai due nuovi – io e un altro – la patente per guidare le ambulanze. Guardai quel
tipo grasso, giovane e che ostentava un’inspiegabile fiducia in se stesso, vestito come
un rappresentante di qualcosa (forse un rappresentante di obiettori) e osservai che non
ero sicuro di essere un gran guidatore di ambulanze, soprattutto in caso di urgenze. Il
Manzi, così si chiamava il responsabile, mi disse che avevo ragione. Più tardi mi
accolse in uno stanzino fatiscente detto ambulatorio, per parlare a quattr’occhi e
affermò: «Ascolta, un anno è lungo da passare, se rompi ti inculo a balzelli per tutta
la stanza.» Decisamente, non era la tipica crocerossina. Presto ebbi la patente per le
ambulanze. Mi spiegarono il funzionamento di tutta la baracca. La radio, le chiamate
telefoniche che ci segnalavano gli incidenti, i servizi di routine, l’etica eroica di tutta
la questione, le norme e i suggerimenti. Capii ben poco, se non che facevamo orari
massacranti e illegali. D’altra parte se rompevo mi attendevano i balzelli. Pensai di
esercitarmi a usare la radio, che mi sembrava la cosa più importante. Provai a
chiamare una delle nostre ambulanze. «Chi è questo cretino che parla?» fu il
commento di una voce venuta dal nulla. Guardai i campi ancora ghiacciati fuori dalla
finestra, oltre il fiume denso che correva proprio sotto di noi, il fango duro che
imprigionava le case gialle come in un incantesimo malvagio, il castellozzo che svettava in lontananza, certo abitato da qualche spirito che regnava in quel luogo di
dolore e desolazione, lasciai andare il pulsante della radio e chiusi la bocca."
Enzo Fileno Carabba
Pessimi Segnali
https://youtu.be/O33dhlSHCFI