venerdì 27 giugno 2014

Dalla terrazza (aspettando l`idraulico)

   

Quando si parla di creazione artistica esiste uno standard, come per esempio nel caso di un colore, o ragionare in questi termini ci precipiterebbe in una contraddizione senza fondo? Come riconoscere le imposture nel vasto mare,al netto del talento e in un quadro di liberta` espressive?
 Si trova in giro di tutto un po`, e se da un lato va tutelata la potenzialita` creativa dell`individuo, e del collettivo, da un altro punto di vista probabilmente andrebbero scacciati i mercanti dal tempio,laddove al di la del puro delirio, verrebbe da considerare come tali tutti coloro che pensano di gabbare il prossimo e gli animatori del settore che determinerebbero con un "via libera" la possibilita che un talento, anche allo stadio larvale, possa trovare un terreno fertile, e magari invece sono troppo occupati a promuovere un altro contributo di cui si fatica a coglierne l`urgenza.
O forse la vera arte sfugge da ogni recinto ed e' destinata a rivelarsi come tale contro ogni dialettica interpretativa e in barba a tutti gli schemi, lasciando al palo cio` che arte non e`, ma solo un vago desiderio di appartenenza non suffragato ne` dall`ispirazione e neanche da un giudizio esterno condiviso, quando invece proprio non ci troviamo nel caso limite della speculazione borsistica operata ai danni del nostro piacere inconscio in nome del dio denaro, alla faccia della madre di tutti gli interrogativi



domenica 22 giugno 2014

indietro tutta

Questa e` la storia di un paese da operetta, dove alla fine il colpo di stato lo fanno i Boy Scouts.

Continua (forse)

http://cs50.musload.com/dl32/load_box/m06/d13/4a508072d720c414c084c80c33fc9241.mp3



giovedì 19 giugno 2014

Una modestissima proposta( a proposito di certi feroci, recenti o meno, fatti di cronaca)

Poscia piu` che l`amor pote` il teatro. Parafrasando(un po a vanvera, certo)Dante, bisognerebbe forse mettersi a scrivere un corrispondente inverso dei monologhi della vagina, per l`appunto un "melodramma del cazzo", da portare in giro. Almeno per provare a disinnescare questa bomba che abbiamo sotto il culo


 http://www.youtube.com/watch?v=Ch6x9iHlVHU





martedì 17 giugno 2014

http://books.google.it/books?id=PnZuXHRIa2oC&pg=PA4&dq=giorni+di+battaglia+taibo&hl=it&sa=X&ei=wAmgU5TmCO-R0QXZ6IGIAw&ved=0CC4QuwUwAg#v=onepage&q=che%20melodramma%20del%20cazzo&f=false



Marquiez Thiess lo guardava sorpreso.
"Non si illuda. Io e lei siamo uguali."
"Forse lo siamo stati quando tutta questa storia è iniziata. Oggi siamo in due trincee opposte e, ciò nonostante, promiscue. Quelli come lei sono dentro di noi, dentro di me, dentro gli operai della General Elettric dove lavoravo prima, dentro irene e le 12 ragazze uccise. Dobbiamo estirparvi dal nostro cuore."
"Se mi uccide lo fa solo per liberarsi, per simulare una vittoria. Ma non ci sarà nessun vincitore, solo inganno."

Hector estrasse la pistola. "Spiegazioni non ne devo a nessuno. Invece è mio dovere vendicare 12 ragazze morte per un gioco di società condotto da un mostro. Lei non è l'unico, è vero.Dall'alto altri giocano a scacchi con la nostra vita. Ma i vertici non sono alla mia portata. Un giorno o l'altro daremo l'assalto al cielo e, distruggendolo, libereremo ciò che il cielo ha contagiato."
"Lei si sta sbagliando. Non chiuderà la partita con me sparandomi. Non potrà evitare che io sia lo specchio di cui ha tanto bisogno."
"Che melodramma del cazzo" disse Hector e alzò la pistola di suo padre

Paco Ignacio Taibo II

https://www.youtube.com/watch?v=tapxFm5181U



venerdì 13 giugno 2014

"Scopo del blitz all`idroscalo, se ricordo bene, era la denuncia del totale stato di abbandono del luogo, che in effetti a quei tempi era una specie di discarica a cielo aperto, cosparsa di ferraglia arrugginita, preservativi, materassi putrescenti, siringhe abbandonate dai tossici, mucchi di piastrelle ed altri scarti di cantieri edili. In mezzo a tutto questo denso e inestricabile rigoglio, troneggiava la massa enorme di quello che doveva essere stato un monumento. Il vandalismo e le intemperie, spesso alleati nel produrre notevoli esempi di bellezza involontaria, che e` sempre la piu` sublime delle bellezze, aveva trasformato quell`opera di stile astratto, di per se banalissima, in un simbolo eloquente di caducita` e disperazione. Dal cemento grigio crepato e scomposto fuoriuscivano i ferri dall`armatura, come l`ossame di una carcassa divorata da un branco di predatori. Nessuna targa, nessuna iscrizione spiegava l`origine di quella sconcertante rovina. Oggi quella terra di nessuno abbandonata a se stessa e ai suoi lugubri ricordi e` parte di un`area protetta, affidata alla Lega per la Protezione degli Ucelli. L`autore di Uccellacci e Uccellini avrebbe forse apprezzato l`ironica coincidenza. Il monumento e` stato rimesso a nuovo, ci sono vialetti e panchine. Una targa di marmo riporta i famosi versi iniziali del Pianto della scavatrice. Solo l`amare, solo il conoscere conta, eccetera eccetera. Si poteva scegliere qualcosa di piu` originale, ma non bisogna nemmeno esagerare con lo snobismo. Ha finito insomma per trionfare, sulla vecchia scena del delitto, una decorosa insignificanza. Ma dal mio punto di vista la bonifica si e` portata via, assieme alla sporcizia e allo squallore (che non sempre e non necessariamente sono cose del tutto negative), l`indefinibile ma prezioso sentore di autenticita` che aleggiava sul luogo, assieme ai miasmi di un`intollerabile angoscia. E` immaginabile uno Stato cosi lungimirante, cosi` filosofico, da avere il coraggio di onorare la memoria di un poeta, di un uomo autentico e coraggioso come P. P. P., con un mondezzaio abusivo? Un popolo capace di comprendere la sottile pedagogia di un tale monumento, forse non avrebbe piu` bisogno nemmeno di uno Stato."

Qualcosa di scritto(Emanuele Trevi)

http://youtu.be/rA74JYG8CRg

martedì 10 giugno 2014

all'improviso nel sogno mi venne un dubbio così forte che caddi dalla sedia. La Jugoslavia era stato l'unico esempio rilevante al mondo di interpolazione quasi riuscita tra mercato e socialismo. Grazie al paziente lavoro dell'entourage di Tito si era riusciti a cucire un crogiuolo di etnie garantendo a tutti parità di diritti, anche se le rivendicazioni non mancavano.Era persino garantita la piena libertà fottersi il cervello con qualsiasi tipo di culto. La produzione industriale era discreta(ricordo ancora l'immarcescibile spaventoso sachs del vecchio Dem Dem) e nei giochi di squadra quando erano in giornata le loro mosse sembravano guidate dalle mani degli dei. Ma a qualcuno quel discreto esempio in divenire al centro del mediterraneo andava di traverso alla luce dei progetti che andava covando. Per cui negli anni con un certosino lavoro diplomatico underground e una guerra di spie hanno fomentato istanze nazionalistiche di cui si sarebbe potuto anche fare a meno, arrivando a creare quel merdosissimo teatro di guerra dove purtroppo i serbi per difendere un principio sono cascati nella provocazione dei propri bassi istinti soffocando nel sangue quello che era stato una visione da coltivare.Appena mi lavai la faccia mi resi conto della fragilità del mio satori onirico, ma mi rimase comunque qualche ripensamento. Così mi accinsi a trascorrere un'altra giornata nella spasmodica attesa dell'inizio dei mondiali, in cui di certo non avrei fatto mancare alla Bosnia il mio calore di tifoso discreto


https://www.youtube.com/watch?v=aKdWkNDmVow






sabato 7 giugno 2014

"AQUEL PERONISMO DE JUGUETE" OSVALDO SORIANO

CUANDO YO ERA chico Perón era nuestro Rey Mago: el 6 de enero bastaba con ir al correo para que nos dieran un oso de felpa, una pelota o una muñeca para las chicas. Para mi padre eso era una vergüenza: hacer la cola delante de una ventanilla que decía "Perón cumple, Evita dignifica", era confesarse pobre y peronista. Y mi padre, que era empleado público y no tenía la tozudez de Bartleby el escribiente, odiaba a Perón y a su régimen como se aborrecen las peras en compota o ciertos pecados tardíos.

Estar en la fila agitaba el corazón: ¿quedaría todavía una pelota de fútbol cuando llegáramos a la ventanilla? ¿O tendríamos que contentarnos con un camión de lata, acaso con la miniatura del coche de Fangio? Mirábamos con envidia a los chicos que se iban con una caja de los soldaditos de plomo del general San Martín: ¿se llevaban eso porque ya no había otra cosa, o porque les gustaba jugar a la guerra? Yo rogaba por una pelota, de aquellas de tiento, que tenían cualquier forma menos redonda.

En aquella tarde de 1950 no pude tenerla. Creo que me dieron una lancha a alcohol que yo ponía a navegar en un hueco lleno de agua, abajo de un limonero. Tenía que hacer olas con las manos para que avanzara. La caldera funcionó sólo un par de veces pero todavía me queda la nostalgia de aquel chuf, chuf, chuf, que parecía un ruido de verdad, mientras yo soñaba con islas perdidas y amigos y novias de diecisiete años. Recuerdo que ésa era la edad que entonces tenían para mí las personas grandes.

Rara vez la lancha llegaba hasta la otra orilla. Tenía que robarle la caja de fósforos a mi madre para prender una y otra vez el alcohol y Juana y yo, que íbamos a bordo, enfrentábamos tiburones, alimañas y piratas emboscados en el Amazonas pero mi lancha peronista era como esos petardos de Año Nuevo que se quemaban sin explotar.

El General nos envolvía con su voz de mago lejano. Yo vivía a mil kilómetros de Buenos Aires y la radio de onda corta traía su tono ronco y un poco melancólico. Evita, en cambio, tenía un encanto de madre severa, con ese pelo rubio atado a la nuca que le disimulaba la belleza de los treinta años.

Mi padre desataba su santa cólera de contrera y mi madre cerraba puertas y ventanas para que los vecinos no escucharan. Tenía miedo de que perdiera el trabajo. Sospecho que mi padre, como casi todos los funcionarios, se había rebajado a aceptar un carné del Partido para hacer carrera en Obras Sanitarias. Para llegar a jefe de distrito en un lugar perdido de la Patagonia, donde exhortaba al patriotismo a los obreros peronistas que instalaban la red de agua corriente.

Creo que todo, entonces, tenía un sentido fundador. Aquel "sobrestante" que era mi padre tenía un solo traje y dos o tres corbatas, aunque siempre andaba impecable. Su mayor ambición era tener un poco de queso para el postre. Cuando cumplió cuarenta años, en los tiempos de Perón, le dieron un crédito para que se hiciera una casa en San Luis. Luego, a la caída del General, la perdió, pero seguía siendo un antiperonista furioso.

Después del almuerzo pelaba una manzana, mientras oía las protestas de mi madre porque el sueldo no alcanzaba. De pronto golpeaba el puño sobre la mesa y gritaba: "¡No me voy a morir sin verlo caer!". Es un recuerdo muy intenso que tengo, uno de los más fuertes de mi infancia: mi padre pudo cumplir su sueño en los lluviosos días de setiembre de 1955, pero Perón se iba a vengar de sus enemigos y también de mi viejo que se murió en 1974, con el general de nuevo en el gobierno.

En el verano del 53, o del 54, se me ocurrió escribirle. Evita ya había muerto y yo había llevado el luto. No recuerdo bien: fueron unas pocas líneas y él debía recibir tantas cartas que enseguida me olvidé del asunto. Hasta que un día un camión del correo se detuvo frente a mi casa y de la caja bajaron un paquete enorme con una esquela breve: "Acá te mando las camisetas. Pórtense bien y acuérdense de Evita que nos guía desde el cielo". Y firmaba Perón, de puño y letra. En el paquete había diez camisetas blancas con cuello rojo y una amarilla para el arquero. La pelota era de tiento, flamante, como las que tenían los jugadores en las fotos de El Gráfico.

El General llegaba lejos, más allá de los ríos y los desiertos. Los chicos lo sentíamos poderoso y amigo. "En la Argentina de Evita y de Perón los únicos privilegiados son los niños", decían los carteles que colgaban en las paredes de la escuela. ¿Cómo imaginar, entonces, que eso era puro populismo demagógico?

Cuando Perón cayó, yo tenía doce años. A los trece empecé a trabajar como aprendiz en uno de esos lugares de Río Negro donde envuelven las manzanas para la exportación. Choice se llamaban las que iban al extranjero; standard las que quedaban en el país. Yo les ponía el sello a los cajones. Ya no me ocupaba de Perón: su nombre y el de Evita estaban prohibidos. Los diarios llamaban "tirano prófugo" al General. En los barrios pobres las viejas levantaban la vista al cielo porque esperaban un famoso avión negro que lo traería de regreso.
Ese verano conocí mis primeros anarcos y rojos que discutían con los peronistas una huelga larga. En marzo abandonamos el trabajo. Cortamos la ruta, fuimos en caravana hasta la plaza y muchos gritaban "Viva Perón, carajo". Entonces cargaron los cosacos y recibí mi primera paliza política. Yo ya había cambiado a Perón por otra causa, pero los garrotazos los recibía por peronista. Por la lancha a alcohol que casi nunca anduvo. Por las camisetas de fútbol y la carta aquella que mi madre extravió para siempre cuando llegó la Libertadora.

No volví a creer en Perón, pero entiendo muy bien por qué otros necesitan hacerlo. Aunque el país sea distinto, y la felicidad esté tan lejana como el recuerdo de mi infancia al pie del limonero, en el patio de mi casa.